PRESENTAZIONE
Tra le paure ataviche dell’uomo una delle più forti è senza dubbio quella dell’abbandono. E cosa c’è di più terribile che trovarsi seminudi, immobilizzati (legati mani e piedi), in un luogo pressoché deserto, all’approssimarsi della notte, affamati e assetati, esposti a probabili intemperie? Poche altre situazioni risulterebbero più angoscianti di quella descritta… ma, fortunatamente (?) per loro, i protagonisti di questa vicenda non sono soli, sono in due e potranno, se non altro, farsi compagnia, infondersi coraggio e speranza l’un l’altro in attesa che qualcuno si ricordi di loro e venga a soccorrerli… ma è davvero così?
Siamo all’alba del terzo millennio, Pasqua 2000, e in un imprecisato paesino di una delle tante province (intese come luoghi dell’anima e non come entità amministrative) italiane viene organizzata una sacra rappresentazione che dovrebbe concludersi in cima ad una montagnola, fuori dal centro abitato, che rappresenta il Golgota. Qui, due uomini, che, apparentemente, più diversi non potrebbero essere, attendono già da ore l’arrivo della processione appesi alle croci che simboleggiano quelle dei due ladroni dell’iconografia tradizionale. Ma, per una strana concomitanza di eventi, la processione non arriverà mai e i due saranno costretti, loro malgrado, a socializzare, ad aprirsi l’un l’altro, a mettere insieme le loro solitudini che vanno ben al di là della situazione contingente.
Ma chi sono questi due individui?
Uno è un maestro di scuola elementare, frustrato e rancoroso, laico, scettico, persino un po’ classista, volontariamente “auto-esiliatosi” in quel paesino sperduto quasi a voler espiare i propri sensi di colpa nei confronti della moglie (ma lo si scoprirà solo dopo un bel po’… ché, dapprincipio, il maestro è restio ad aprirsi), insofferente e un tantino misantropo… tetro!
L’altro è un vinaio, incolto, rozzo ma socievole, ha una sua schiettezza genuina, popolare e una buona dose di logorrea che irrita il suo compagno di sventura, umile e “felicemente” rassegnato alla vita che conduce… percepisce il proprio lavoro quasi come una missione, una vocazione avuta da piccolo e della quale va orgoglioso… in altri contesti, un compagnone!
Sulle prime, il dialogo è rarefatto, stentato… il vinaio è desideroso di fare conversazione, sia per far trascorrere il tempo più piacevolmente sia per indole, ma trova un muro di ostilità nel malmostoso maestro che tenterà di “mantenere le distanze”…
Ma, man mano che la situazione diventa disperata e disperante, questi due mondi paralleli, queste due solitudini sconosciute e comuni a molti, queste due vite uniche e banali si incontreranno, giocoforza, sul filo della parola… l’apparente, potenziale conflitto sociale si stempererà fino a sciogliersi in una solidarietà cameratesca ma incompiuta a causa del tragico, sorprendente epilogo!
La pièce ha una tessitura tragicomica (gli spunti sono quelli della comicità classica, dai fratelli De Rege in poi: la differenza di ceto, cultura, quoziente intellettivo… tra i due uomini, li pone agli interpreti su un piatto d’argento)… e, ovviamente, una “staticità” sacrale che incombe sullo spettatore costringendolo a porre la propria attenzione sul percorso (una vera e propria Via Crucis, con tanto di Stazioni!) verbale dei protagonisti.
Non, manca all’interno del testo, una sottesa critica sociale che trae linfa dalla condizione professionale umile e umiliante dei due che rischiano in più tratti di farsi la classica “guerra tra poveri”…
Alla luce della recente cronaca politico-economico-finanziaria il testo originario è stato integrato con qualche “profetico” scambio di battute che pensiamo arricchisca dinamicamente la piéce stessa.
L’affiatamento dei due interpreti (diversi e complementari sulla scena nonché buoni amici nella vita… che non guasta) e la sintonia degli stessi con il regista chiamato a dirigere la coppia… fa il resto!
Due…
Costretti ad una forzata condivisione dell’attesa, i due, per poter sopravvivere, sono costretti ad interagire. Abbandonati al loro destino, i personaggi, molto diversi tra loro, sono obbligati a confrontarsi. Nel definire “l’universo di discorso” che dovrebbe renderli solidali, i due rimangono, tuttavia, profondamene discordanti e contrapposti su tutti i temi esistenziali: lavoro, famiglia, Dio, politica, etc. Ciò che li accomuna, diremmo antropologicamente, è il senso dell’attesa. In realtà, aspettare che, finalmente, “qualcosa si muova”, oppure che intervenga “la svolta” favorevole ai destini personali, è un’attitudine comune a tutto il genere umano. Nell’attendere che il nostro destino si compia, magari rendendoci giustizia delle fatiche, dei torti e dei bocconi amari che la fortuna dissemina nel percorso di ognuno, diamo fondo ad improbabili speranze e fedi religiosi artatamente rassicuranti.
Così, i nostri due personaggi, aspettando la processione che non è arrivata, mettono in discussione l’ineluttabilità dell’appuntamento cristiano, quindi, il passo è breve, si ritrovano a fare i bilanci di una vita vissuta con fatica e sacrificio per raggiungere una meta (qualunque essa sia) che non arriva.
È, in breve, ciò che definiamo “Crisi”, in cui tutte le certezze vengono pervase dal dubbio. In cui oltre che agli errori delle azioni passate si cerca di stabilire cosa rimanga ancora di “esatto”. Un grande momento in cui si cerca di ridefinire l’accaduto cerando di capire quale regola o dogma sia in realtà giusto o sbagliato: “…la crisi è la più grande benedizione per le persone e le Nazioni, perché la crisi porta progresso”, prendendo a prestito le parole di A. Einstein.
Nel mettere in scena “L’alba del terzo millennio” abbiamo cercato di mettere a nudo tutte le incertezze che convivono in modo latente nei personaggi e che, non appena si inceppa il meccanismo della vita quotidiana, vengono a galla in modo disordinato e irrisolto. Una circostanza che prevede la scoperta del “nuovo” e che, alla fine, ci fa ricordare l’ “ha dda passà ‘a nuttata” di eduardiana memoria.
Federico Magnano di San Lio
“L’alba del terzo millennio”, nella sua versione originale, è stato rappresentato la prima volta nel 1994 al Teatro Argot e successivamente al Teatro dell’Orologio in Roma con la regia dello stesso autore che ha interpretato anche il ruolo del Vinaio, mentre Paolo Fosso ha interpretato il Maestro. La compagnia del teatro Abeliano di Bari (tra le tante altre) rappresenta lo spettacolo da dieci anni con grande successo.
La versione proposta dalla coppia Coltraro-Puglia è la prima in Sicilia e ha debuttato con grande successo di critica e pubblico nella stagione XXI in SCENA, al Teatro del Canovaccio di Catania.